CARRELLO
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Non mi sovviene stagione della mia vita priva di poesia. Letta, declamata, scritta, vissuta, la poesia mi accompagna da sempre, con le sue lusinghe e le sue suggestioni. Ma anche con le regole inflessibili, le frustrazioni e la sofferenza che attengono alla condizione umana...
Diotima, la profetessa che secondo Platone insegna a Socrate la vera natura dell’amore, è anche l’eroina di un bel libro di Holderlin, “Iperione o l’eremita in Grecia”, che la rappresenta come “una creatura smarrita in un secolo senza ideali e senza armonia”. Ora, la prefazione a un libro di poesie non dovrebbe partire da una citazione, e tuttavia, conoscendo la predilezione di Vanni Spagnoli per Hölderlin, ritengo che la sua scelta dell‘esergo “dileguiamo nel fondo del tuo mare, taciti come a una lusinga lieta, finché si ode l’ora che richiama, e ci ridesta, con orgoglio rinnovato, a essere le stelle che ritornano nella rapida notte della vita.” sia illuminante perché la rapida notte e le stelle che ritornano sembrano alludere a un momento cruciale della sua vita. Ugualmente, il titolo stesso di questo libro (che con Prigioniero dell’alba e Isole è tra i più cari all’Autore) potrebbe essere una chiave interpretativa nella lettura dell’opera: Anime in transito. Il termine “transito”, in particolare, si impone all’attenzione: non viaggio di anime, non tragitto, ma, appunto, transito, come a significare un vago passare intinto di nostalgia che cela, forse, come per la Nerina di Leopardi (Ahi tu passasti, eterno sospiro mio: passasti…) quello dalla vita terrena alla vita eterna. E quanto è lontano questo “transitare” dai viaggi che la letteratura ci ha abituato a frequentare: da quello “verticale” di Dante, con un suo misterioso e terribile punto di partenza fino al traguardo sublime, a quello “orizzontale” dei grandi navigatori all’oscuro del loro ultimo approdo ma determinati a raggiungerlo, o di chi, inoltratosi in un labirinto, è ansioso di guadagnare l’uscita. Nei “transiti” di Vanni Spagnoli, invece, c’è tutta l’incertezza dell’uomo moderno che passa, passa velocemente, e non sa più né da dove è partito né quale sia la sua meta; per le sue domande non c’è risposta alcuna: tacciono indecifrabili i giorni. Chiedere, interrogare, aspettarsi che una novella Diotima risponda a domande imprecise, è una richiesta ingenua e struggente, accompagnata da un sorriso complice di solitudine e amore. E come il pescatore che in una sua poesia osserva i pesci sfiorare l’amo, il poeta contempla, dal suo scomodo punto di osservazione, come uno scoglio immobile senza illusione di approdo, un mondo esterno a lui e, più ancora, il proprio mondo interiore, entrambi in corsa, via, via, con una velocità che confonde. E qui si inserisce la meditazione sul tempo, un tempo che non sa l’emozione tumultuosa dell’attesa. Tempo e transito sono strettamente connessi sia che il tempo si accorci e incomba indifferente sulle sciagure degli uomini nell’orologio rotto fermo sulle dieci sia che porti con sé sempre nuovi sogni e sempre nuovi risvegli. S’inserisce nel tempo il tema del ricordo: è arduo convivere con la memoria e anche se i ricordi, a dispetto di tutto, si affollano densi come equilibristi il loro passo è incerto e la seta cede, si perde l’ordito. Ci sono memorie fugaci, ricordi distratti, ricordi che fanno tristi gli occhi, ma nulla è statico, cristallizzato una volta per tutte: si sfiorano i capelli di lei con la dolcezza mai pigra di sempre ed ecco che l’universo transita di nuovo, incessantemente. E suoni e profumi lasciano sperare che la trama e l’ordito della vita si accendano nuovamente di colori. C’è una dinamica senza soste anche negli elementi della natura che pullulano nella memoria: affiorano impetuose le epifanie (Bretagna, Sicilia, Grecia, le vocianti cicale, i gabbiani, gatti, insetti, granchi, il rosso del corallo, il biancore di fitte nebbie, nubi d’inverno, magnolie in fiore) e tutto partecipa di quel fluire che non conosce riposo e che bene è espresso dai frequenti verbi di movimento quali, inseguire, srotolarsi, avanzare, correre, dissolversi, precipitare come se il poeta e noi con lui assistessimo impotenti alle meraviglie del passato e del presente che scorrono fugaci davanti a noi in un tempo che si fa sempre più breve. La natura è mistero invisibile ed eterno, da una parte, e metafora concreta di sentimenti dall’altra. E ancora, il transito è slittamento doloroso e senza fine dal tempo reale a quello dell’immaginazione e la lezione leopardiana è quanto mai presente nel confronto tra i rintocchi ovattati delle campane, il crepitare di una brace e la vaghezza che obbedisce all’imperativo poetico dell’indistinto anche nei particolari realistici quali lo scoppiettare di un tagliaerba e il rumore pieno del biliardo. Ogni cosa, tangibile o astratta, si confonde nella velocità del tempo che fugge. Fermare attimi, creare illusioni d’eterno: è possibile? E come convivere con la memoria se i giorni tacciono indecifrabili tra ricordi distratti e sussulti di vento? Transita il Tempo, passato e presente, transitano così le cose organiche e inorganiche, transitano così le persone, i sogni, la realtà, i suoni, il silenzio. Qual è il disegno di queste poesie? La frequenza dei verbi all’infinito, la congiunzione “e” ripetuta come una sequenza di passi, le persone verbali plurali (Siamo fili di seta), la seconda persona (Cerca) e la prima (Non so, non ricordo), l’alternanza tra versi ottonari e bisillabi o ternari, un lessico dell’indeterminatezza (fugaci, ultimo): tutto, tutto concorre al traguardo di ritrovare sé stessi. E nonostante si perda l’ordito mentre avanza la sera, il tentativo di non smarrire i contorni dell’essere, dell’esistere, del vivere, trova una corrispondenza anche nella struttura di Anime in transito dove ogni verso della poesia d’apertura dà origine e titolo a un’ulteriore poesia, quasi che l’insieme delle pagine vivesse come forma organica dotata di vita. Di questo viaggio con i suoi inseguimenti e le sue vane rincorse, tuttavia, qualcosa resta: resta il contatto leggero della tua bocca in una notte di fieno tagliato, resta l’affiorare fugace di un arcobaleno. A patto che si corregga lo sguardo. Quello dell’io poetante è il passaggio da una condizione di dolorosa precarietà (Siamo fili di seta/ tesi sul nulla) all’insopprimibile tentativo di specchiarsi in altri sguardi diversi dal suo: Cerca altri sguardi è l’invito, lo sprone. Se si cercano altri sguardi, nell’inganno del tempo che si fa sempre più breve, rimane qualche traccia come di un arancio di nubi all’orizzonte. Se invece lo sguardo cerca solo sé stesso, non trova altro che Fate Morgane, apparenze, eidola e, quel che è peggio, il nulla che immobilizza il tempo e lo priva del suo vitale transito. Dunque, al tema angoscioso di chi non sa indovinare i passi si oppone quello speculare ed elegiaco di un movimento in libertà sotto un cielo senza confini. È una rinnovata dimensione che richiede coraggio. Esige forza. Si apre finalmente un ingresso a cui si arriva con scarpe da uomo, in una ribellione rivolta contro la propria fragilità di filo di seta pronto a spezzarsi da un momento all’altro; ci si arriva con la testarda e timida convinzione che è tempo di bussare a quella porta per riscoprire la tangibilità del vivere e assaporare il gusto intenso del vino. Ed è tempo di bussare con tocchi da uomo, quasi a cercare nella virilità classica degli eroi più dolenti del mito la chiave che apra tutte le porte a un chiarore che aumenta. E nella contrapposizione tra luce e buio, tra la dimensione ctonia e quella uranica, rimane, alla fine della lettura di questo libro prezioso, l’immagine siderale di un magico transito, eterno, simbolo indecifrabile della condizione umana, forse l’unico transito a cui alluda davvero il titolo: quello di un corpo celeste che passa davanti al disco del sole, lontano, silenzioso, sovrastante. E lo sguardo ne contempla il passaggio come se in esso si trovassero le radici eterne della poesia.
Quando la vita di un uomo, offertosi totalmente agli incontri attraverso tutti i suoi sensi più raffinati, s’affaccia allo specchio di sé – e questo può accadere in attimi ineguagliabili di giovinezza o di maturità – quando la vita di un tale uomo, dunque, si volge a se stessa meravigliandosi di essersi tanto protesa, così indifesa e fragile, sulla cresta del mondo, può allora svelarsi lei, Diotima, veggente e sacerdotessa, eterna sophia, anelito all’amore, o con un altro nome: Poesia. “Siamo fili di seta / Su cui s’affollano densi / I ricordi /Come equilibristi sorpresi / Che la trama resista/ Al loro cauto avanzare” Questo “cauto avanzare” verso se stessi è la chiave poetica di Vanni Spagnoli, amante della sua donna, di un buon calice di vino, di cibi speziati, dei tramonti gemelli alle albe, di pensieri e parole simili a terre intraviste cariche di luci o di nostalgiche ombre, ma anche di ogni “voluttuoso allungarsi di gatto”. E davanti allo specchio, la vita del poeta perde i suoi contorni rigidi, comincia a tremare come un’immagine liquida smossa da un piccolo sasso e ogni cosa diventa un niente e un tutto… “Siamo fili di seta /Tesi sul nulla / L’incertezza di un passo / Un dolore irrisolto /E già cede la seta / E si perde l’ordito/ Mentre avanza la sera” Acque, profumi, “una morte di gigli immaturi”, suoni, luci, “un accenno d’oceano / Che evapora/ Contro le rocce/ Sotto lo sguardo attento/ Di un cormorano”... voci e silenzio: orme di un tempo che non ha limiti nello svolgersi delle piccole cose tra le grandi onde del sentire umano. “Il profumo d’alga/ E di mare/ In livide mattine/ Bretoni/ Di bassa marea/ L’aroma denso/ Di zagara/ Frammisto/ Al vento caldo/ Di Sicilia/ E l’inebriante/ sentore/ Della notte greca/ Tra gli ulivi” Ed è appunto questo alternarsi di cose terrene e di cose celesti, narrate da un sentimento generoso e caldo, il segreto della poesia di Vanni Spagnoli, così concreta e così lirica allo stesso tempo. “Nel tempo che non sa / Ascoltare / Il risveglio di un’alba / Cogliere / Mutevole armonia di chitarre / Fluire / In una notte d’ulivi / Profumi mischiarsi / Densi/ Al limitare d’oceano/ E portare il tuo errare/ Lontano/ Tra fuochi / Che incendiano il buio/ Ancora e ancora/ Dopo la morte/ A segnare il limite/ Impervio/ Del nostro sentire/ Quanti segni del tempo/ Nelle piccole cose/ Quando il cielo sembrava/ Non avere confini/ Quante rotte seguite/ Sotto cieli stellati/ E sopra alterni mari/ Per arrivare qui/ Adesso/ In mezzo la vita/ Con il suo vociare impreciso/ E i silenzi”. Eppure, nel viaggio tra le creature naturali che popolano la fantasia del poeta, la meta è l’incontro con l’umano, che ha l’aspetto velato di una fanciulla, di una donna, di una amata. E anche la sensualità, che è sempre amore, meraviglia del dono reciproco, s’inserisce naturalmente e con levità nella sensualità pura dell’universo. (8) Così come vita e morte sono continuamente allacciate e l’una si protende nell’altra naturalmente con umile gesto di accettazione. “Su pietre smosse dalla piena/ Dicono che più a valle/ Un uomo sia morto/ Travolto dall’acqua/ Il fiume è limaccioso/ Impaziente/ Ansioso di scomporsi/ In frequenti vortici/ Ingoiati dal fondo/ E’ strano come la morte/ Sembri meno definitiva e solenne/ Nell’acqua fredda di un fiume/ Non s’è ancora finito di piangere/ Che già i granchi escono dalle tane/ A rinnovare la loro caccia/ Tra le radici contorte delle sponde”. Oppure la rabbia del cittadino, non avulso dal contesto sociale in cui si consumano lutti e tragedie annunciate, per le morti amare proprio perché non assistite dalla pietà umana o dalla innocente indifferenza della natura, ma dalla vuota e colpevole salmodia di vane parole. Ma si sente urgere dentro/ Come un urlo rabbioso/ Un No che rifiuta una parentela/ Fatta solo di carne/ E di necessità burocratiche/ E ancora telegrammi/ E parole/ Interi telegiornali di parole (9) Eppure il merito più grande di Vanni Spagnoli sta nell’aver nutrito ed alimentato in sé il sentimento più segreto del poeta, quello che porta alla “Testarda solitudine/ E illusione d’approdo”. Scriveva, infatti, Rainer M. Rilke nelle sue prodigiose “Lettere a un giovane poeta” : “Necessaria è una cosa sola: solitudine, grande solitudine interiore. Volgere lo sguardo dentro di sé, e per ore non incontrare nessuno: questo bisogna saper ottenere”. E questo ha fatto Vanni Spagnoli nei suoi viaggi interiori, di pari valore di quelli davvero vissuti in giro per il mondo. Leggere i suoi scritti diventa così anche un comunicare con una parte di noi stessi, quella densa e nello stesso tempo così straordinariamente trasparente della nostra vita, dove tra le indicibili memorie si aggira l’implacabile, eterna nostalgia di quel sentimento divino descritto così grandiosamente dal poeta tedesco Johann Christian Friedrich Hölderlin, che non a caso è citato in questo moderno libro di poesie dallo struggente titolo. (10) Occorre infine testimoniare come il linguaggio poetico usato per queste “anime in transito” sia sempre asciutto e significativo, non ceda mai a giochi futili, e spesso faccia ritornare alla mente l’essenzialità di un antico frammento lirico greco. Prima di entrare/ Ascolta/ Nell’indugiare del giorno/ Il respiro del vento/ Tra gli ulivi/ E lascia fuori/ La tristezza/ Ché non conviene/ Al vino/ Accompagnarsi/ All’oblio/ Sappi gustare il calice/ Nei sensi attento/ E un piatto/ Una canzone/ Il pigro scorrere/ Del tempo/ E alla fine il sonno/ Sarà lieve.
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