CARRELLO
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Il diario di un prigioniero. Una visione che odora di rito convulso e ancestrale, una fiaba a frammenti senza orpelli, sincera e schietta, gridata e soffocata, senza morale, senza mediazione, che ti fissa negli occhi senza volere nessuna risposta certa, ma solo costanza nel reggere lo sguardo. Un Hikikomori che squarcia la sua stessa natura e rivela una vertigine.
«Dal dedalo di gesti, atteggiamenti, grida lanciate nell'aria, da evoluzioni e giravolte che non lasciano inutilizzata nessuna parte dello spazio scenico, si sprigiona il senso di un nuovo linguaggio fisico basato su segni e non più su parole» (Antonin Artaud) La citazione sopra riportata per delineare, in una forma di contenimento psichico, un libro che non si può soltanto leggere, ma divorare. Scritto con sapienza ermeneutica artistica: contiene tutto! Tu lo vedi in forma di libro, ma non lo è. Non so cosa sia. Forse un incantesimo? Una stregoneria? Lo maneggi tra le mani, e ti dà una sensazione fisica: una bella e comoda edizione, una carezza tenera e sfuggente. Lo sfogli e senti la leggerezza. Lo cominci a leggere e senti la pesantezza: il piombo che ti trascina giù, che ti trafigge, che ti spappola qualcosa dentro e che, ad ogni pagina, fatichi a distaccartene. Erano anni che non si affacciava all’editoria una dedizione simile alla vera arte letteraria, scritta e pensata in forma di Poesia ad una metrica solo apparentemente appoggiata al surreale. Una miriade di riferimenti di alta levatura culturale che fanno da stimolo e aprono tutte le sbarre dei cancelli con una forza sovrumana. Mi viene in mente Antonin Artaud (ma forse solo perché in gioventù lo amai perdutamente), la sua ricerca febbrile per scavare nell’intimo umano, attraverso il suo sacrificio totale fino al dolore ultimo. Mi viene in mente Louis-Ferdinand Céline, cupo e nichilista, ma anche innovatore, e strenuamente innamorato della vita. Esempio di lotta non ostentata. Intravedo anche le pennellate grasse di Van Gogh, la passione, l’impeto, la paura, la sperimentale voglia e il sofferto bisogno di fare tutto e niente allo stesso tempo. Il caos che lo guidava, la totale mancanza di fiducia in se stesso che lo ha consegnato ad onori paradisiaci. E Alberto Giacometti, le sue anoressiche sculture che parlano delle incolmabili distanze tra gli uomini. Poesie scritte così, magre, essenziali, ossute, pungenti, preziose come reliquie. Messe in riga, allineate con il rigore di un'etica profonda e ricercata. Posso però anche provare a pensare all’animo dell’autore, del quale nemmeno in ultima di copertina ci è dato di conoscere qualcosa, e a quali flagelli o avventure abbia attraversato per tirarne le somme, per inventare nuovi scenari, in queste pagine, in questo modo, in questo isolamento tenace, come un messaggio in una bottiglia lanciata da un’isola sconosciuta in mezzo all’oceano. Cosa desidera veramente? Chi si permette di scrivere così ha qualcosa che esorbita i limiti di comprensibilità. Chiamalo ermetico, oppure timido, riservato e di certo non sfacciato né spudorato. Delicato. Ecco, delicato è l’aggettivo giusto che irrompe ad ogni parola. È tutto stampato, mistero e dono. Armonia. Un libro appagante nel suo splendore confessato. Viviana Salvati
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